Immaginare Treviso
Stefano Chiodi

La realtà fotografata non somiglia a se stessa. E nel nostro tempo, prodigo com’è di apparenze ma carente di spiegazioni, insieme smemorato e sazio, travolto da un’esorbitante abbondanza di dettagli che non riescono però a restituirci un mondo abitabile, questo singolare contrasto tra esperienza e immaginazione risulta più che mai evidente quando sono i fotografi stessi a farne il centro della loro indagine, il dubbio fondamentale che muove i loro passi e orienta i loro obiettivi. Anche perché oggi la fotografia, nella sua ambizione alla sintesi esem-plare – ancorché sempre limitata a quella testimonianza oculare muta, imprecisa e parziale su cui ha riflettuto a lungo Susan Sontag –, appare condizionata dal suo stesso successo, dalla diffusione e polverizzazione di quantità strabilianti di scatti ritrasmessi ogni istante nel mondo piatto della comunicazione globale. Nel suo ambiguo commercio con le apparenze l’immagine fotografica “coltivata” non può più accontentarsi di esibire la sua intensità, la sua supposta superiorità estetico-morale rispetto al caleidoscopio infinitamente mutevole delle icone pubblicitarie, all’imperizia e al cattivo gusto dei dilettanti. Deve invece assumere anche la propria dissipazione, la propria crisi in quanto linguaggio, il suo essersi dispersa nelle infinite schegge del mondo digitale, nell’immagine sporca, a bassa definizione, nella manipolazione e ricreazione permanente che l’avvento del software ha reso banale per tutti. Alla fine, in maniera inaspettata, e forse per fortuna, i dilettanti hanno vinto. Ma nella fotografia contemporanea l’antica fedeltà analogica al reale è non solo stemperata, al peggio corrotta, ma subisce anche après coup una scossa violenta, una completa denaturazione: anziché rendere trasparente il proprio processo, la propria autoconsapevolezza, si ritrova espropriata, abbassata, offerta al miglior offerente come un fenomeno, e anche in definitiva si dimostra meno estetica, sempre più politica e parziale. Contemplazione, rispetto, distanza, i termini canonici della tradizione fotografica, ci appaiano oggi quasi privi di senso di fronte all’appello incalzante dei simulacri, alla seduzione insinuan-te, all’appagamento istantaneo offerto dal consumo; ecco perché è necessario un sovrappiù di chiarezza critica, di crudeltà anche, da parte dei fotografi, una più radicale messa in gioco dei meccanismi di adesione emotiva, di proiezione fantasmatica che ogni immagine deve mettere in atto per poter emergere dal fondo assordante che la circonda. E certo l’idea di offrire agli obiettivi di quattro fotografi una città, un territorio, un intero complesso di relazioni sociali come materia di immagine, è ciò che connota in senso specificamente critico e politico il progetto che l’Arci di Treviso ha intrapreso dal 2002 ad oggi. Quella che un tempo si sarebbe caratterizzata come una “missione fotografica”, uno specchio fedele ma in fondo rassicurante che ribadisse la fiducia nell’ordine “naturale” della società, nella permanenza dei suoi segni più “nobili”, diviene adesso un modo per restituire visibilità a qualcosa che nel frattempo è divenuto opaco, in nome una disposizione eticamente sensibile che insiste con caparbietà sull’urgenza di vedere e dunque di comprendere, di leggere e decifrare nei segni della realtà urbana i tratti di un’identità nuova e contraddittoria: Treviso come città-laboratorio del benessere “totale” o come terra desolata della privatezza e dell’incomunicabilità, come zona in modo alternato di confine e di espansione, di accumulo e dispersione, di attaccamento tenace ai valori tradizionali e di loro sperpero violento, come periferia senza centro e come tenace volontà di essere centro… Tutto questo non sta “dentro” la città, ci dicono i quattro fotografi invitati a partecipare al progetto, ma è la città, è la sostanza rappresa nei muri e nelle strade, l’energia che scorre nei suoi spazi, che muove i suoi abitanti. Proprio per questo, immaginare una mappatura fotografica di Treviso (e certo di ogni città) non può essere un’operazione indolore, perché ciò che verrà scoperto non sarà mai esattamente quel che ci si attende, perché la “promessa di verità” che la fotografia reca sempre con sé risulta sempre, alla fine, troppo sorprendente o scomoda per poter essere ignorata. E guardiamo, allora. Ecco una facciata bianca, costruita su un angolo smussato e attraversata da una strana cerniera, come se il muro, anziché di cemento, fosse di polistirolo, tagliato di netto con una lametta. Ai lati della sutura zigzagante, al centro esatto della fotografia, un affastellamento di piccole aperture rettangolari, come tessere disperse di un puzzle. In basso la strana vuotezza di una città non finita eppure già vecchia, quasi si fosse saltata di colpo la fase del nuovo per giungere all’istante a una specie di imperdonabile decrepitezza già bisognosa di riparazioni. In un angolo, spuntoni di ferro rugginoso e filo spinato coronano un improvvisato fortilizio di cemento coperto di graffiti; poco più in là, sul vetro opaco di una vetrina, un’iscrizione beffarda, «ALLEGRAMENTE IMMOBILIARE». Le fotografie scattate a Treviso da Gilbert Fastenaekens sono il risultato di un processo di osservazione affilato e paziente; la sua «topografia urbana» è anzitutto un modo per sezionare la città, per ridurla alle sue componenti elementari – strade, edifici – e quindi alla lettera spopolarla, sottrarla ai suoi abitanti, agli usi, agli automatismi quotidiani per poterla finalmente guardare. La città può essere così consegnata a una specie di originaria “coseità”, alla sua sostanza astratta di pieni e vuoti gremita di segni, di puntatori di ogni tipo che sembrano aver provvisoriamente perduto ogni funzione, ogni efficacia, ogni utilità. La città si trasforma in un teatro di cemento e asfalto, dove tutto è come assottigliato, stinto, friabile. Ecco un altro scorcio: un’insegna di negozio ripete «ALLARME», ma senza voce, mentre a sinistra un lampione recita la parte del finto nobile decaduto. O un altro ancora, con una fioritura quasi tropicale in uno spazio scandito da rigide griglie di cemento. Il tempo è qui sempre un’interminabile domenica pomeriggio, lo spazio pieno di ombre lunghe, di passi lenti, di suoni attutiti. Un tempo non feriale ma neppure veramente festivo però, in cui le cose diventano estranee e inquietanti come in una pittura metafisica, ma con un sovrappiù di prosaicità, di limitatezza, di perbenismo piccoloborghese che sfiora senza mai raggiungerla la tragedia e si disperde nell’ossessione di dettagli igienicamente impeccabili: lindi vialetti, portoni, gradini, serrande e imposte senza polvere e senza graffiti, cartelli troppo bianchi, aiuole bordate di asfalto su cui allignano bizzarre specie vegetali – cedri giganti che esibiscono rami amputati come patetici reduci, cespugli con sagome capric-ciose ed equivoche, rigogliosi sempreverdi dall’aspetto artificiale. Se le grandi stampe di Fastenaekens evocano irresistibilmente il sogno di una improbabile normalità, di una sicurezza misurata negli intervalli delle ringhiere bianche, dalle serrande verde chiaro sempre per prudenza calate a mezzo, dei muri invariabilmente pallidi di rosa o di giallo, la serie Strada Ovest di Guido Guidi sembra dominata invece da una sorta di ostinata miopia, di sguardo “basso”, da un dubbio che tocca in modo fondamentale proprio lo spazio percorso dall’occhio. Non voglio vedere, non voglio sapere, sembra recitare come un mantra ogni immagine. Lo scenario ma anche il soggetto delle fotografie è una “strada-mercato” di Treviso, la Strada Ovest appunto, un tipico spazio urbano effimero, che nasce e muore nella stessa giornata, uno spazio che quando scompaiono i suoi utenti è retrocesso a mero supporto, a neutro contenitore di avanzi – lattine schiacciate, foglie secche, giornaletti porno – allegorie di quel collasso del reale nel suo “indice” piano che è poi la natura intima di ogni atto fotografico. E proprio questa sua qualità, o forse appunto il suo desolante anonimato, è ciò che attira il fotografo: di qui la scomparsa dell’orizzonte, della profondità, di ogni calcolato orientamento in questo spazio. L’obiettivo segue quasi in sua assenza l’andatura casuale dell’acquirente, la sua attenzione lenticolare, il gioco rapido del sì e del no, dello scarto e della scelta: inquadra la stretta aiuola lussureggiante di strane piante nane, i cui bordi serrano alternativamente fusti d’albero e colonne d’acciaio imbullonate, o superfici scabre di cemento, di ferro, di asfalto, e poi un palo metallico su cui è rimasta impressa una sottile cicatrice, ancora un allarme, un pulsante rotto, inutile, rimasto appeso a un moncone di cemento ammuffito quasi fosse rimasto immerso per decenni in acqua stagnante. I toni delle immagini sono freddi, dominano i grigi, gli azzurri, i verdi acidi; sono i colori della distanza e del distacco, di una lontana efficienza al limite, e sempre senza coinvolgimento, senza malinconia possibile. Nonostante lo sforzo di orientarsi, lo sguardo del fotografo rimane confinato in dettagli sovrabbondanti ma opachi, non riesce a sollevarsi, a ritrovare la strada, e anche quando la camera indietreggia e si inclina un po’, ciò che incontra sono ancora chiusure, lastre metalliche azzurre o bianche, o ancora cemento rugoso, insensibile, definitivo. Questa nebulosa di cancellature non ci restituisce insomma l’immagine di un luogo ma la sua orografia frammentaria, il suo instabile equilibrio tra forze contrastanti, tra impulsi momentanei che lo occupano senza dargli forma, che vi scorrono come nella subitanea esondazione delle acque di un fiume che il letto abituale non arriva più a contenere. In fondo, alle fotografie di Guido Guidi si potrebbe applicare a mo’ di didascalia quanto diceva in una conferenza nel 1989 un altro fotografo, Lewis Baltz: «fotografare il paesaggio marginale non significa nulla e non influenza nulla. È puramente uno studio negativo, un vuoto». Un vuoto che Baltz sonda sin dall’inizio del suo percorso nel Midwest americano, il vuoto del deserto del reale, delle zone periferiche delle città, di fronte al quale suona ironico il titolo scelto per la serie realizzata a Treviso, Plenty, come in land of plenty, il mitico paese dell’abbondanza, la terra promessa del desiderio reificato, di un’esistenza tenacemente esteriorizzata. Per il fotografo americano il punto fondamentale, il nucleo pulsante e invisibile da portare in luce, è l’intreccio tra la proliferazione senza limiti delle merci e il desiderio che esse suscitano e manipo-lano, l’effetto di oblio che il rinnovamento senza meta e senza pause delle forme esercita sull’esistenza umana. Per questo la sua attenzione non si ferma all’esterno dell’organismo urbano ma vi penetra dentro, attraversa i muri, alla ricerca dei luoghi emblematici della produzione, trovandoli infine in una fonderia e in un’industria tessile, da cui far iniziare una inedita storia naturale della moltiplicazione. La fonderia, con i suoi traboccanti depositi di “anime” perfettamente ordinate in colonne di scaffali, come un esercito di automi silenziosi o un ossario geometrico e maniacale; gli “stampi”, le matrici industriali, sono insieme l’origine degli oggetti di consumo e la loro forma più pura, quella in cui si mostra non ancora dissimulata dall’uso una natura seriale, una profonda aspirazione all’uniformità. E poi lo stabilimento tessile, con le rastrelliere da cui pendono innumerevoli campioni di stoffa o l’ufficio in cui i fantasmi fotografici di seducenti e disponibili corpi femminili si contrappongono come in un frammento romanzesco ai piccoli relitti kitsch – la bottiglia col Che, la nostalgica “pizza” di pellicola – di un’eterna adolescenza; in mezzo, nelle carte che coprono la scrivania, resta impigliata un’assenza, affiora il buco in una trama apparentemente perfetta. Questo soggetto scomparso o invisibile è ciò che è mancato finora in tutte queste fotografie, il corpo vivo, respirante, gli abitanti della città, chi si muove, vive negli spazi fissati nella loro disfunzionale oggettività. Con i volti ritratti da Francesco Raffaelli il cerchio sembra allora chiudersi; come il pubblico apostrofato da Guy Debord nel suo sferzante In girum imus nocte et consumimur igni, i personaggi della serie Uno di questi giorni sembrano sonnambuli consumati da un ingranaggio che li spolpa in sussurri, strappati a malapena dal fotografo ai loro sogni, costretti ad aprire gli occhi, a guardare di fuori. La distanza si è ora ridotta al minimo, i volti si affacciano da una stretta apertura, ci cercano nello spazio di qua: sono trasognati, esitanti. Raffaelli ci mostra un’umanità priva di segnali di riconoscimento, di uniformi sociali, fisionomie individuali di cui si cerca di salvaguardare la sostanza creaturale, il fondo carnale che ci appare screziato di rosso cupo, di rosa e di azzurro nelle quattro immagini a colori della serie. Con il suo invito a mantenere attivo uno sguardo empatico, a leggere le piccole increspature emotive che ogni immagine lascia affiorare, il fotografo sa di tener fede a una promessa. Eccoci allora alla fine riconsegnati a noi stessi e al nostro presente, rispecchiati nel caso diluito che governa gli spazi reali della città, ai suoi rumori, sapori, odori, al tempo che morde e ci spinge in avanti. Le fotografie, lo sappiamo, sono questioni di attimi, di colpi d’occhio, di centesimi di secondo trattenuti e ammaestrati per ripetere il loro numero a comando. E Treviso non ci appare più trasparente, più comprensibile al termine di questo percorso, semmai più simile a tante altre città italiane in questo incerto inizio secolo, a tutti i luoghi che ci capita di attraversare, al mondo intero forse, fissato almeno in un certo giorno di un tempo vicino. Ma se è inutile chiedere a una fotografia di esporci le cause, le motivazioni, i meccanismi intimi e feroci che governano la trasformazione fisica dei luoghi così come quella del paesaggio sociale, a esse dobbiamo invariabilmente ricorrere per supportare la nostra vista corta, la nostra inguaribile tendenza a dimenticare, a tralasciare, a nascondere, a uniformare. Per questo, per il suo valore di testimonianza, di prova a carico, di equivalente problematico, di raccolta di casi singolari, la fotografia mantiene per noi il valore di una formazione centrale e insostituibile nella nostra esperienza. Queste fotografie, che aprono la città come la scena di un dramma, luogo immaginario quanto concreto, ci ricordano a ogni loro apparire che reale è ciò che viene a noi, che si stacca dall’indistinto, che si lascia riconoscere, con un atto di vera agnizione, come parte della nostra stessa contraddittoria sostanza.