La sottile linea rossa
(The Thin Red Line, USA 1998, col, 170’). Di Terrence Malick. Con Sean Penn, Adrien Brosy, Jim Caviezel, Ben Chaplin, George Clooney, John Cusack, Woody Harrelson, Elias Koteas, Nick Nolte, John Savage, John Travolta.

Nel novembre 1942, dopo un idilliaco intermezzo a contatto con la natura e i nativi della Melanesia, il soldato Witt e un commilitone, disertori (o defilati?), sono riaggregati alla compagnia di fucilieri Charlie, impegnata nella conquista di Guadalcanal, la maggiore delle isole Salomone (Oceania). Le sanguinose fasi dell’attacco a una collina controllata dai giapponesi e le vicende successive sono narrate attraverso le voci interiori dei protagonisti. Libera versione del romanzo omonimo (1962) di James Jones (1921-77), già filmato nel 1964 con la regia di A. Marton, prende il titolo da un verso di Kipling. Raro, se non unico, film sulla guerra in cui per i primi 40’ non si ode uno sparo e non esistono protagonisti, ma alcuni personaggi un po’ più importanti, peraltro incompleti, non sviluppati e lasciati alla deriva che hanno un senso soltanto nel contesto corale: il cap. Staros (E. Koteas), il ten. col. Toll (N. Nolte), il serg. Welsh (S.Penn), il soldato Bell (B. Chaplin). Lo stesso Witt (J. Caviezel), figura irrilevante in Jones, è la voce recitante di un oratorio di argomento metafisico e di tono neoromantico. Malick (1945), tornato al cinema a vent’anni da I giorni del cielo, ha scelto la guerra come la porta attraverso la quale passare per dire qualcosa di radicale (di indicibile?) sull’estensione dello spettro morale di cui è capace l’uomo e porre alcune domande: perchè la guerra? che posto ha l’uomo sulla Terra? che cosa lo spinge alla violenza, a perdere il senso della natura, della pietà, della bellezza? Questo film panteista è una preghiera di fine millennio, un’invocazione d’aiuto, un “poema triste, soffocato e malinconico sulle cose della natura e sulla natura delle cose, uomo compreso” (Bruno Fornara). Fotografia (in 70 e 35 mm) di John Toll, musica dell’inglese e post moderno Hans Zimmler. 5 nomination agli Oscar, nemmeno una statuetta.

Notorius
(Notorius, USA 1946, col, 101’). Di Alfred Hitchcock. Con Cary Grant, Ingrid Bergman, Claude Rains, Louis Calhern, Leopoldine Konstantin, Reinhold Schunzel.

La figlia di una spia nazista (Bergman) viene convinta da un agente segreto americano (Grant) a farsi sposare da uno dei capi dello spionaggio tedesco in Brasile, Sebastian (Rains), per poterlo controllare. Hitchcock al meglio in uno dei suoi più riusciti film di spionaggio, dove la trama gialla, sceneggiata da Ben Hecht, si mescola al melodramma sentimentale (per amore di Grant la Bergman accetta di finire nel letto di Rains, che tenterà di avvelenarla). Alcuni colpi di stile, come lo zoom sulla chiave che porta in cantina, sono entrati nella storia del cinema, mentre le scene d’amore tra Grant e Bergman sono ancora oggi di struggente intensità. Da vedere e rivedere. Hitchcock appare nella festa di Sebastian dove beve una coppa di champagne con una sola sorsata.

Il terzo uomo
(The Third Man, GB/USA 1949, b/n, 104’). Di Carol Reed. Con Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles, Trevor Howard, Bernard Lee, Paul Horbiger, Wilfrid Hyde-White.

Chiamato nella Vienna del 1946, devastata dalla guerra e divisa in quattro zone di occupazione, dall’amico Harry Lime, lo scrittore americano di western Holly Martins (J. Cotten) assiste ai funerali di Harry, ma le testimonianze sulla sua morte, investito da un camion, sono dubbie: c’erano tre uomini, non due, ad assistere all’incidente. Chi era il terzo uomo? Lo stesso Lime (O. Welles), che infatti è vivo, è ricercato per contrabbando di penicillina adulterata. Lo scopre Martins che entra in contatto con Anna (A. Valli), amante di Lime, espatriata clandestinamente dalla Cecoslovacchia. Sarà Martins a ucciderlo dopo un inseguimento nelle fogne della città. Scritto da Graham Greene, che dalla sceneggiatura trasse un romanzo (1950), è uno di quei film, ormai un classico del cinema britannico, che nascono da uno straordinario concorso di circostanze: un bel copione, un regista quarantenne nella sua stagione di grazia, una tela di fondo (Vienna) di grande suggestione grazie al bianconero di taglio espressionistico di Robert Krasker, il romantico commento musicale su cetra di Anton Karas, interpreti funzionali, un perfetto ingranaggio d’azione in cui la tecnica del giallo si coniuga con una sottile indagine psicologica. Il film riesce a trasmettere allo spettatore il "pessimismo notturno" del regista attraverso una scelta di regìa barocca, ridondante e melodrammatica "impreziosita da set davvero straordinari che il grandangolo tanto caro a Reed distorce senza pietà" [E. Martini]. Tra i personaggi deformati da angolazioni esasperate e inghiottiti dagli intrichi di vicoli e tombini, emerge la figura demoniaca di Harry Lime, sardonico criminale di guerra che spiega il suo cinismo in un monologo celeberrimo che non esisteva nella sceneggiatura originale e che fu inventato da Welles stesso: "In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù". Palma d’oro a Cannes e Oscar per Krasker.

Othello
(Othello, Marocco/Italia/Francia/USA 1952, b/n, 91’). di Orson Welles. Con Orson Welles, Suzanne Cloutier, Michel MacLiammoir, Robert Coote, Michael Lawrence, Hilton Edwards, Fay Compton, Nicholas Bruce.

Mandato dalla Repubblica di Venezia a comandare la piazzaforte di Cipro, il "moro" Otello (Welles) sceglie Cassio (Lawrence) come suo secondo, scatenando l’invidia di Iago (MacLiammoir) che per vendicarsi soffia sulla gelosia del moro, facendogli credere che la moglie Desdemona (Cloutier) ami Cassio. Convinto, la uccide soffocandola, ma poi scopre la verità e si uccide. Ispirandosi al dramma di Shakespeare (ma tenendo ben presente la versione operistica di Arrigo Boito, che faceva di Iago il vero protagonista della tragedia), Welles costruisce un film modernissimo, che sopperisce con un montaggio pirotecnico (in un’ora di film ci sono almeno 1500 inquadrature differenti) ai problemi produttivi che fecero durare le riprese più di due anni (dal 1949 al 1951, tra Venezia, Roma e il Marocco) e che videro nel ruolo di Desdemona alternarsi anche Lea Padovani, Cécile Aubry e Betsy Blair (delle quali restano brevissime inquadrature, praticamente irriconoscibili, in campi lunghissimi). Aperto e chiuso dai funerali del moro e della moglie, il film è tutto centrato sul dramma di un personaggio istintivo e incolto come appunto è Otello alle prese con una civiltà (la bellezza, l’arte e la cultura, Desdemona, Venezia e il loro retroterra storico) dalla quale si sente irrimediabilmente rifiutato. Una recitazione trattenuta e sobria viene ancor più esaltata da una messinscena, che cambia continuamente taglio e angolo delle riprese, e dalla scenografia di Alexandre Trauner, che utilizza al meglio la povertà della produzione (fuochi, tagli di luce, vapori, ombre) così che questo "è il solo film di Welles che autorizzi a parlare di un utilizzo classico del suo talento barocco". Piccolissime apparizioni per Joseph Cotten (nei panni di un senatore veneziano) e di Joan Fontaine (come paggio). Gran premio per il miglior film a Cannes, ex aequo con Due soldi di speranza.

Cinque pezzi facili
(Five Easy Pieces, USA 1970, col, 98’). Di Bob Rafelson. Con Jack Nicholson, Karen Black, Susan Anspach, Lois Smith, Billy Green Bush.

Robert Eroica Duprea (Nicholson) - secondo una tradizione che assegna a tutti in famiglia un nome musicale: sua sorella si chiama Partita, suo fratello Fidelio - è un pianista che ha rinunciato alla carriera e alla classe borghese cui appartiene per mettersi on the road. Tornerà a casa quando apprende che il padre è gravemente ammalato, ma il tentativo di reinserimento sarà inutile e il giovane se ne andrà di nuovo. Secondo film di Rafelson (il primo, Head, sul gruppo musicale dei Monkees, è inedito in Italia) e piccolo cult di una generazione, per il suo sguardo critico e amaro sui modelli di vita americani, analizzati attraverso una serie di episodi che mettono a confronto due o più personaggi appartenenti a tipi socioculturali diversi. Uno dei migliori film americani degli anni ’70. Racconto di scontento, non di contestazione. Analisi di un’inquietudine, non di un dubbio. Film della coscienza infelice, è ricco di finezze psicologiche e paesaggistiche. Scritto da Adrien Joyce, pseudonimo di Carole Eastman. La galleria di caratteri che ne esce è forse l’elemento più datato del film (legato all’anticonformismo di moda in quegli anni) ma le interpretazioni, di Karen Black nella parte della fidanzata impacciata e sgraziata di Robert e soprattutto di Susan Anspach in quella della promessa sposa del fratello "Fidelio", sono superlative. Così come la divertente performance di Helena Kallianiotes come autostoppista. Su tutti emerge Nicholson nel ruolo di Robert Eroica, la cui popolarità internazionale si inaugurò proprio con questo film.

Vecchia America
(Nickelodeon, USA/GB 1976, col, 121’). Di Peter Bogdanovich. Con Ryan O’Neal, Burt Reynolds, Tatum O’Neal, Brian Keith, Stella Stevens.

Anni Dieci: l’avvocato Leo Halligan (O’Neal) diventa per caso regista di una troupe scalcagnata la cui star è un ex sicario (Reynolds). Alla prima di Nascita di una nazione di Griffith (1915) si renderà conto che anche il cinema può essere arte. Ispirandosi ai ricordi di registi come Raoul Walsh, John Ford e Allan Dwan, Bogdanovich (che firma la sceneggiatura con W.D. Richter) rende omaggio ai pionieri della decima arte con nostalgia, affetto e un umorismo a volte un po’ lezioso. Gag e citazioni del muto (O’Neal spesso rifà Harold Lloyd) ma, nessuna pedanteria o seriosità intellettuale. I Nickelodeon (dal titolo originale americano) erano sale cinematografiche dove, per 5 centesimi (un nickel), si assisteva a film di pochi minuti. Papà e figlia O’Neal tornano a essere diretti da Bogdanovich dopo Paper Moon.

Eraserhead - La mente che cancella
(Eraserhead, USA 1978, b/n, 89’). Di di David Lynch. Con John Nance, Charlotte Stewart, Jeanne Bates, Judith Anna Roberts, Jack Fish, Laurel Near.

Definito dal regista (cui costò quattro anni di lavoro e poche migliaia di dollari) "un sogno di cose oscure e inquietanti". Il film è un incubo popolato di incubi: il giovane Henry dai capelli ritti a presbìtero; l’epilettica Mary che partorisce un mostriciattolo con la testa di coniglio scuoiato; un teatrino tra gli elementi di un radiatore; la testa di Henry che si stacca dal corpo ed è portata in una fabbrica per farne gommini per cancellare; la testa del neonato che galleggia nell’aria. In bilico tra espressionismo e surrealismo, è un microcosmo formale autonomo sotto il segno della sterilità e della corruzione, che evita simbolismi, allegorie, interpretazioni psicoanalitiche e ispira una sorta di angoscia metafisica e di paura ripugnante. Il linguaggio è classico, ma Lynch ne fa un uso aberrante nella dilatazione dei tempi e dei suoni. Straordinario, ingombrante, intollerabile, divenne un film di culto nei cinema di mezzanotte.

Ombre e nebbia
(Shadows and Fog, Usa 1991, b/n, 86’). Di Woody Allen. Con Woody Allen, Mia Farrow, John Malkovich, Madonna [Louise Veronica Ciccone], Jodie Foster, Lily Tomlin, Kathy Bates, Donald Pleasance, John Cusack, Kate Nelligan.

Negli anni Venti, in una nebbiosa città tedesca, il pavido signor Kleinman (Allen) viene ingaggiato da un comitato cittadino per difendere la collettività da un misterioso strangolatore: in una notte di ronda incontra gente di ogni tipo, perde il lavoro, la compagna e rischia di perdere anche la vita, finchè decide di diventare l’assistente di un mago e di consacrarsi alle pratiche illusionistiche. Allen sostituisce le nevrosi newyorchesi con le ombre e le nebbie della mitteleuropa, ma conserva inalterati i punti forti del suo cinema: il girotondo casuale della vita dove non esiste più una morale certa e un inevitabile castigo (come già in Crimini e misfatti); l’esaltazione dell’arte come unico luogo dove trucchi e "illusioni" possono aiutare a sottrarsi al Male e a creare rivitalizzanti utopie (come già in Zelig); la riscoperta di una religiosità laica dove la sofferenza fa ritrovare agli uomini concrete solidarietà (come già in Broadway Danny Rose). Temi che l’ambientazione di fantasia del film permette di affrontare con una grande libertà creativa, grazie anche al bianco e nero contrastato di Carlo Di Palma, alle spigolose geometrie urbane (completamente ricreate in studio) di Santo Loquasto e alle musiche di Kurt Weill che citano Brecht e accompagnano le brevi apparizioni di un gran numero di star, a cominciare da Madonna (che interpreta Marie).