LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO
(Francia 1928, b/n, 85’).
di Carl Theodor Dreyer. Con Renèe Falconetti, Maurice Schutz,Michel Simon, Antonin Artaud, Ravet.

La celebre storia della Pulzella d’Orléans (Falconetti) raccontata in un solo processo e in una sola giornata, tra il palazzo di giustizia e l’attigua piazza di Rouen. Con l’aiuto dello storico Pierre Champion, Dreyer concentra tempo e spazio per andar oltre la leggeda e "raggiungere la verità estetica e psicologica del soggetto". Prodotto dalla Société Général de Film per creare un pendént femminile al Napoléon di Abel Gance, il film non mostra infatti l’intrepida eroina della tradizione, bensì la ragazza qualunque oppressa dal potere, pura, visionaria e sola. È uno dei capolavori del muto, in equilibrio tra reportage e cinema sperimentale. Desiderando ma non potendo utilizzare il sonoro per problemi tecnici, il regista scelse comunque di lavorare quasi esclusivamente sul primo e sul primissimo piano. Gli 85 mila metri di pellicola girata si ridussero a 2.200 nel montaggio definitivo (circa 120’), ma la versione originale ebbe una vita travagliatissima. L’unico negativo esistente venne distrutto in un incendio nei laboratori Ufa di Berlino nel 1928. Dreyer rieditò il film utilizzando gli spezzoni scartati nel montaggio precedente e per molto tempo si credette che anche questa versione fosse andata persa in un incendio del 1929. Casualmente ritrovata nel 1952, la seconda edizione di Dreyer venne manomessa senza scrupoli da G.M. Lo Duca: le didascalie furono scritte sullo sfondo di vetrate pseudomedioevali, la velocità aumentate a 24 fotogrammi al secondo invece dei 20 originari per consentire l’inserimento della colonna sonora e il poema sinfonico di Victor Alix e Léon Pouget, in tredici parti, per seguire la scansione del racconto, venne sostituito con musiche di Albinoni, Vivaldi, Scarlatti e altri. Fortunatamente nel 1981 fu scoperta in un ospedale psichiatrico norvegese una copia del primo negativo.

LA NOTTE DEL PIACERE
(Svezia 1951, b/n, 90’).
di Alf Sjöberg. Con Anita Björk, Ulf Palme, Dorff Henrikson, Lissi Aland,Inger Norberg.

Segnata da un padre debole (Henrikson) e da una madre nevrotica, la contessa Giulia (Björk) decide, nella notte di San Giovanni, di concedersi al servo Jean (Palme). Ma, consumata la loro notte d’amore, non hanno il coraggio di fuggire e Giulia si uccide per non dover affrontare la collera paterna. Adattamento del dramma La signorina Giulia di August Strindberg, che lo stesso regista sceneggia con molta libertà "mescolando passato e presente e utilizzando la casa dei conti per dare alla storia un contesto sociale e storico" (con una serie di flashback innovativi per l’epoca, in cui gli avvenimenti dell’infanzia irrompono nella stessa scena, in cui Giulia li evoca). In questo modo smorza l’atmosfera claustrofobica della pièce (che si svolge tutta in una stanza), ma approfondisce il tema dell’umiliazione sessuale e dell’autodistruzione, grazie a una straordinaria interpretazione di Anita Björk e a una suggestiva fotografia di Göran Strindberg. Palma d’oro a Cannes ex aequo con Miracolo a Milano di De Sica.

PERSONA
(Svezia 1966, b/n, 85’).
di Ingmar Bergman. Con Liv Ullmann, Bibi Andersson, Gunnar Björnstrand, Margaretha Krook, Jöegen Lindströmö.

Lo strano rapporto tra un’attrice divenuta afasica (Ullmann) e la loquace infermiera che si prende cura di lei (Andersson). Dramma esistenziale sui temi del doppio e della maschera, scritto da Bergman durante il ricovero ospedaliero. Due donne escono dai ruoli ricoperti fino a quel momento, chi nell’arte, chi nella vita, e si specchiano l’una nell’altra, fino alla perdita completa di sé. Anche il cinema sembra autoinfliggersi il silenzio (all’inizio la pellicola prende fuoco e si accarticcia su se stessa), mentre la televisione parla inviando messaggi di morte (le cronache dal Vietnam, i bonzi che bruciano vivi). Un film sconvolgente, ma anche uno dei più datati di Bergman. Le due interpreti fanno a gara nell’esprimere l’inesprimibile e la fotografia, come sempre in Bergman, è di Sven Nykvist.

IL FLAUTO MAGICO
(Svezia 1974, col., 135’).
di Ingmar Bergman. Con Josef Köstlinger, Irma Urrila, Håkan Hagegard, Elisabeth Eriksson, Ulrk Cold, Birgit Nordin.

Il Principe Tamino (Köstlinger), innamorato di Pamina (Urrila), per avere la giovane ed entrare nel Regno della Luce, deve superare, armato del suo flauto magico, le tre prove del silenzio, dell’acqua, e del fuoco. Stupefacente film-opera sulla partitura mozartiana prodotto per la televisine svedese, che pur rimanendo fedele al testo si trasforma in una summa delle tematiche bergmaniane: il gusto dell’ignoto e dell’inesprimibile, gli intrighi della vita, lo stupore per lo spettacolo, la malinconia anche nei giochi d’amore. Un unicum non solo nella filmografia del regista, ma anche nella storia del genere e per questo osannato sia dai critici cinematografici che da quelli musicali: il segreto della riuscita è nello straordinario equilibrio tra musica, teatro e cinema, tre arti riunite all’insegna di una rappresentazione intima, giocosa e sensuale, cosciente di essere pura creazione e capace di fare di ogni necessità virtù (come nel caso dei sottotitoli inseriti direttamente nell’azione con cartelli portati dagli stessi personaggi). Da notare la "bergmanizzazione" del personaggio femminile: Pamina non è più la semplice principessa delle favole, ma è una donna che entra nel Regno delle Tenebre a testa alta e a occhi aperti, con il coraggio di affrontare la realtà e di cambiare tipico delle figure femminili reccontate dal regista svedese. La fotografia è di Sven Nykvist. La musica è eseguita dall’orchestra della radio svedese diretta da Eric Ericson.

FANNY E ALEXANDER
(Sv/Fr/Rft 1982, col., 197’).
di Ingmar Bergman. Con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Ewa Fröling, Erland Josephson, Jan Malmsjö. 

In una cittadina di provincia svedese, all’inizio del secolo, vive la famiglia Ekdahl: quando il padre, direttore di teatro, muore, i due figli, Fanny (Allwin) e il sognatore Alexander (Guve) sono costretti a vivere secondo le rigide impostazioni del vescovo protestante Vergérus (Malmsjö) con cui la madre (Fröling) si è risposata, finchè un avventuroso intervento della nonna e dell’antiquario ebreo Isak (Josephson) non ricompone l’armonia familiare, grazie anche all’improvvisa morte del vescovo in un incendio. Prodotto originariamente per la televisione (cinque puntate per un totale di 312 minuti), é una sorta di film testamento: una commedia che si colora anche di dramma, dove l’arte bergmaniana perviene a una serena e armonica conciliazione degli opposti della vita, vista come uno spettacolo dove "tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile". Al centro una famiglia di artisti di teatro (il padre muore recitando Amleto, la vedova riprenderà a recitare col Sogno di Strindberg, "dimostrazione quasi utopica della possibilità di vivere naturalmente anche la morte e le passioni"), il cui equilibrio verrà distrutto dall’intervento repressivo del ministro ecclesiastico, caricaturale rappresentazione dell’eccessivo puritanesimo della cultura nordica. La fotografia di Nykvist fa miracoli nel rendere il contrasto fisico tra il calore del mondo teatrale, la magia dell’ambiente ebraico, la freddezza ascetica del rigore religioso. Tre Oscar: miglior scenografia, costumi e miglior film straniero.

LA FIAMMIFERAIA
(Fin/Sv 1989, col., 70’).
di Aki Kaurismäki. Con Kati Outinen, Elina Salo, Esko Nikkari, Vesa Vierikko, Silu Seppälä.

La triste e squallida quotidianità di una ragazza (Outinen) impiegata presso una fabbrica di fiammiferi: tanta solitudine, una famiglia taciturna e ostile, un uomo (Vierikko) che la mette incinta e poi vorrebbe sparire. Con pochi tratti e uno stile rigoroso ed essenziale, Kaurismäki costruisce un’agghiacciante parabola "sulla pazzia del mondo contemporaneo, sulle alienazioni che ci siamo abituati a subire ma che giorno dopo giorno ci annientano" e ci dà il ritratto di un mondo disperato e senza speranza, ma raccontato senza nessun tipo di indulgenza o autocommiserazione.

NUVOLE IN VIAGGIO
(Fn 1996, col., 96’).
di Aki Kaurismäki. Con Kati Outinen, Kari Väänänen, Elina Salo, Sakari Kuosmanen, Markku Peltola.

Helsinki: Ilona (Outinen), cameriera, e suo marito Lauri (Väänänen), tramviere, perdono il lavoro. Il destino sembra accanirsi contro di loro finché apriranno un ristorante che, forse, avrà successo. Parlando della disoccupazione "più come stato mentale che come realtà economica", Kaurismäki resta in felice equilibrio tra l’osservazione neutra e sconfortata e un ottimismo "metafisico" che nessuna realtà sembra giustificare. Ormai giunto alla maturità, lo stile catatonico e stralunato del regista si è lasciato alle spalle ogni compiacimento formalista, ed è indispensabile per raccontare, con un effetto e una partecipazione non comuni, l’odissea priva di patetismo di due brave persone vittime di una società che è uguale in Finlandia come in tutto il resto del mondo.

THE KINGDOM - IL REGNO
(Dn/Sv 1994, col., 279’).
di Lars von Trier. Con Ernst Hugo Järogård, Kirsten Rolffles, Birgitte Raabjerg, Jens Okking, Udo Kier.

Nell’ospedale danese Il Regno dove il borioso e incompetente chirurgo svedese Sting Helmer (Järogard) ha ridotto una ragazzina in stato catatonico, appare il fantasma di una bambina morta in circostanze misteriose nel 1919: la spiritista dilettante Drusse (Rolffles) indaga con l’aiuto del dottor Krogen (Pilmark), scoprendo una verità orribile. Sorta di Twin Peaks ospedaliero concepito per la tv, e popolato da una serie di lunatici equamente divisi in simpatici e odiosi, è un’irresistibile soap opera macabra che stravolge allegramente le regole del genere, pur rispettandone i meccanismi. Satira e spaventi, melodramma e tuffi nell’horror più radicale: la fretta (von Trier ha scritto la sceneggiatura in un mese e mezzo con Niels Vørsel e Tòmas Gislason) e la cornice televisiva hanno prodotto il miglior film del regista, e l’unico in cui l’ironia non difetti. Tanto da rendere digeribili le ambizioni spiritualiste e antimoderniste di fondo (evidenti nella satira della scienza imbelle sconfitta dal soprannaturale), e vezzi come l’uso della macchina a mano e una fotografia dai colori impastati.

LE ONDE DEL DESTINO
(Dn/Sv/OlFr/Nr 1996, col., 159’).
di Lars von Trier. Con Emily Watson, Stellan Skarsgård, Jean-Marc Barr, Udo Kier.

Nord della Scozia: dopo il marito Jan (Skarsgård) è rimasto paralizzato in un incidente su una piattaforma petrolifera, la virginale Bess (Watson), da lui istigata, si degrada come una prostituta, convincendosi che è l’unico modo per guarirlo. Messa al bando dalla comunità di bacchettoni locali, ma continuando a parlare con Dio, come don Camillo, porterà la sua missione fino al sacrificio della vita, anche se non potrà vedere gli effetti del miracolo. Svolta nella carriera del cerebrale von Trier (anche sceneggiatore) verso un cinema esplicitamente emozionale, che guarda alto (Ordet di Dreyer) e colpisce basso (come Il cattivo tenente di Ferrara, per altro molto più sgradevole e radicale nell’affrontare i paradossi di fede). Convertitosi, pare, al cattolicesimo, von Trier serve una prevedibile parabola sull’ambivalenza di peccato e purezza, colpa e redenzione, amore e sacrificio: ma non basta calcare le tinte e prendere alla lettera le metafore per cogliere il senso del sacro. Gran premio speciale della giuria a Cannes e grandi lodi alla Watson.

EDIPO RE
(Italia 1967, col., 104’)
di Pier Paolo Pasolini. Con Franco Citti, Silvana mangano, Alida Valli, Julian Beck, Carmelo Bene, Ninetto Davoli.

Versione della tragedia di Sofocle in forma di saggio, con gli opportuni riferimenti alla psicoanalisi. La storia dell’uomo (Citti) che, inconsapevolmente, uccide il padre, sposa la madre (Mangano) e, quando scopre la verità, si acceca, diventa per Pasolini un dramma universale e al tempo stesso autobiografico. Prologo negli anni Venti, epilogo nella Bologna moderna, parte centrale in una immaginosa Grecia barbara e fuori dal tempo (ricostruita in Marocco). Pasolini compare nei panni del gran sacerdote. Per il ruolo di Tiresia, interpretato dall’animatore del Living Theater Julian Beck, Pasolini aveva scritturato Orson Welles. Straordinari i costumi "primitivi" di Danilo Donati.

APPUNTI PER UN FILM SULL'INDIA
(Italia 1969, b/n, 34’).
di Pier Paolo Pasolini.

Alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, insieme a Teorema, Pasolini presentò anche il mediometraggio Appunti per un film sull’India, girato nel dicembre 1967 e prodotto dalla Rai. Naldini spiega nella sua biografia pasoliniana che gli "appunti" si riferivano a un film "sulla storia di un marajà che, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell’India); e, dopo la liberazione dell’India, sempre idealmente, la famiglia di questo marajà scompare perché i suoi membri muoiono di fame uno a uno durante una carestia".
Pasolini aveva dapprima progettato di fare un film sullo sviluppo di una coscienza politica nelle nazioni del Terzo Mondo,
usando racconti con radici nella cultura locale che risultassero omogenei grazie a ciò che definiva un "sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario". Pasolini effettuò le riprese cinematografiche per le strade, soprattutto a Bombay e nelle sue estreme, poverissime periferie, con la cinepresa in spalla, riprendendo gente comune e dialogando con intellettuali indiani. Vuole "verificare" la propria "concezione poetica del film" e così presenta a persone di ogni estrazione sociale l’idea di realizzazione della storia del marajà. Ascolta e registra opinioni, commenti, suggerimenti; e coglie, sui volti vecchi e giovani, nei gesti, nei sorrisi, una incredibile ricchezza di espressioni.

APPUNTI PER UN'ORESTIADE AFRICANA
(Italia 1969, b/n, 70').
di Pier Paolo Pasolini.

Durante la lavorazione di Appunti per un film sull’India, Pasolini progettò di allargare il discorso ai temi della religione e della fame e ai problemi del Terzo Mon-do, girando episodi che rappresentassero alcune realtà, dai paesi africani e arabi, all’America Latina e ai ghetti neri nordamericani. Il progetto si rivelò irrealizzabile, anche per difficoltà di produzione. Rimasero ampi spezzoni di pellicola, gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo e la sceneggiatura de Il padre selvaggio. Pasolini precisò: "Quel film dovevo girarlo in diversi paesi del Terzo Mondo (..) Era quindi una sorta di documentario, di saggio. Non lo potevo concepire che in questa forma". Se il film non vedrà mai la luce, Pasolini girò però per la televisione italiana un documentario Appunti per un’Orestiada africana, del quale dirà Moravia: "(..) è uno dei più belli di Pasolini. Mai convenzionale, mai pittoresco, il documentario ci mostra un'Africa autentica, per niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell'esistenza, coi suoi vasti paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un'umanità contadina e primitiva, le sue due o tre città modernissime già industriali e proletarie. Pasolini "sente" l'Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano".

LE MURA DI SANA'A
(Italia 1970, col., 13’).
di Pier Paolo Pasolini.

Alla fine delle riprese del Fiore delle Mille e una notte, effettuate nello Yemen, Pasolini girò il film-documentario Le mura di Sana'a.
"Era l’ultima domenica che passavamo a Sana'a, capitale dello Yemen del Nord", disse Pasolini. "Avevo un po’ di pellicola avanzata dalle riprese del film.
Teoricamente non avrei dovuto possedere l’energia per mettermi a fare anche questo documentario; e neanche la forza fisica. Invece energia e forza fisica mi son bastate, o perlomeno le ho fatte bastare. (...) Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana'a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare (..) È uno dei miei sogni occuparmi di salvare Sana’a e altre città, i loro centri storici: per questo sogno mi batterò, cercherò che intervenga l’Unesco". Notevole e commosso il commento di Pasolini, che si appella all’Unesco perché protegga quelle bellezze come patrimonio storico-culturale dell’intera umanità.

NETTEZZA URBANA
(Italia 1948, b/n, 9’).
di Michelangelo Antonioni

L’anno seguente a Gente del Po, Antonioni gira N.U. documentario sulla vita degli spazzini a Milano. "Sentivo già da tempo una stanchezza istintiva verso le tecniche e i modi di racconto, normali e convenzionali, del cinematografo, fin dai primi documentari, soprattutto da N.U., che avevo già girato in modo piuttosto diverso da quello fino ad allora conosciuto. (...) Sentivo il bisogno di eludere certi schemi che si erano venuti formando... Cercai di fare un montaggio assolutamente libero (...) a lampi, a inquadrature staccate, isolate, a scene che non avessero nessun nesso l’una con l’altra ma che dessero semplicemente un’idea più meditata di quello che volevo esprimere".

GENTE DEL PO
(Italia 1943-1947, b/n, 9’).
di Michelangelo Antonioni

Nel 1943, costretto dagli eventi a tornare in Italia, Antonioni riesce, nella situazione caotica delle strutture cinematografiche, a iniziare Gente del Po, il suo primo cortometraggio. Ha detto il regista: "Un documentario sulla pesca, sui pescatori, sul trasporto con i battelli: uomini cioè, non cose e luoghi". Non può però concluderlo, la guerra lo costringe a lasciare Roma. Nel 1947 rintraccia il materiale girato, lo monta e finisce il documentario.

SUPERSTIZIONE
(Italia 1948, b/n, 9’).
di Michelangelo Antonioni

Nel 1943, costretto dagli eventi a tornare in Italia, Antonioni riesce, nella situazione caotica delle strutture cinematografiche, a iniziare Gente del Po, il suo primo cortometraggio. Ha detto il regista: "Un documentario sulla pesca, sui pescatori, sul trasporto con i battelli: uomini cioè, non cose e luoghi". Non può però concluderlo, la guerra lo costringe a lasciare Roma. Nel 1947 rintraccia il materiale girato, lo monta e finisce il documentario.

L'AMOROSA MENZOGNA
(Italia 1948, b/n, 10’).
di Michelangelo Antonioni

L’amorosa Menzogna è un breve inchiesta sul mondo dei fotoromanzi tema che tornerà più ampiamente in un film realizzato da Federico Fellini (Lo sceicco bianco).